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LaboratorioCom in Venezuela. Vi racconto un paese che resiste

Il 28 Maggio 2016, ormai più di due anni fa, un nostro team partiva per la Repubblica Bolivariana del Venezuela.

Non era ancora arrivato il momento delle vacanze, ci aspettavano molte ore d’areo per svolgere un compito preciso: fare lo start up dell’ufficio di comunicazione web dell’allora Ministro del potere popolare delle Relazioni Estere , Delcy Rodriguez (oggi presidente della controversa Assemblea Nazionale Costituente), e di suo fratello Jorge Rodriguez, allora Alcalde del municipio Libertador del districto Capital, quello che da noi verrebbe più semplicemente indicato come il sindaco della città di Caracas, oggi Ministro delle Comunicazioni, intimo amico di Hugo Chavez e membro del leggendario consiglio dei 13 del PSUV.

Ne scriviamo oggi dopo più di due anni per due semplici motivi: per una questione professionale abbiamo preferito fino ad ora non dare visibilità al progetto non conoscendo all’epoca le implicazioni e le effettive ricadute dello stesso e perché oggi la situazione è ormai definitivamente precipitata e lì abbiamo lasciato degli amici che meritano il nostro piccolo pezzo di verità.

Sorvolando su quanto controversa fu la nostra scelta di accettare questo incarico, sia per una questione etica (la crisi aveva già avuto effetti devastanti sulla popolazione) che per una questione di sicurezza, decidemmo che avere la possibilità di lavorare con l’ultima Resistenza rappresentata da un Governo socialista, in un territorio dove le ideologie sono ancora fortemente radicate, sarebbe stata una occasione unica e imperdibile per chi come noi si occupa di comunicazione politica.

Quello che ricordo con estrema nitidezza del viaggio fu la sensazione che provai appena salito sul volo per Caracas, da Madrid; i volti preoccupati di tutti i viaggiatori, compresi noi. I Venezuelani che tornavano in patria non avevano il solito spirito leggero che accompagna il ritorno a casa e gli stranieri che andavano lì lo facevano perché dovevano.

Una signora sui 70 anni mi chiese, in volo, di dove fossi e perché stessi andando a Caracas; le spiegai che ci andavo per lavoro e lei mi disse che non c’erano soldi in Venezuela e che gli unici che avevano soldi erano i politici. Mi fece sorridere.

All’aeroporto ci aspettava il nostro contatto, un imprenditore venuto in Italia a ingaggiarci due mesi prima. Recuperate le valigie e superati numerosi controlli gestiti dai militari salimmo su tre auto blindate. Ecco, questo non lo dimenticherò mai: un’auto aveva una grossa ammaccatura su un lato e una delle guardie armate che ci scortavano (e che ci scortarono per 3 mesi) mi raccontò che la settimana precedente erano stati assaltati da 3 automobili per tentare di derubare un ospite che trasportavano. Mi disse che però loro avevano resistito ed erano riusciti a sparare e uccidere uno degli assaltatori. Lo disse con naturalezza, come io avrei parlato di una partita a calcetto. Non so se lo disse per spaventarci e prenderci un po’ in giro. Noi ci spaventammo.

Vivevamo in hotel di lusso e l’ufficio era organizzato in una grande suite; nei primi 40 giorni abbiamo cambiato Hotel per 3 volte (per non meglio specificati motivi di sicurezza). Dopo pochi giorni dal nostro arrivo l’ambasciata italiana inviò un comunicato in cui consigliava a tutti i cittadini italiani di lasciare il paese e invitava tutti a non intraprendere viaggi in Venezuela. La situazione stava precipitando e nelle cucine del nostro hotel 5 stelle mancavano pasta e praticamente tutti i prodotti importati ma c’era quasi sempre pesce o carne.

La situazione economica 

L’equilibrio era molto precario, ma non voglio aggiungere l’ennesima opinione sulle politiche socialiste e imperialiste, mi limiterò a riportare alcune interessanti informazioni riferitemi allora da fonti che definirei “privilegiate”.

Quando Chavez salì al potere non si poteva stimare il numero esatto dei cittadini venezuelani; ci si pose, dunque, il problema di come censire gli abitanti e si decise di sfruttare la tecnologia e di creare dei registri elettronici; questi registri furono poi utilizzati per avere il primo voto elettronico largamente diffuso della storia. Molti dicono che fu una manovra per controllare il voto e che la stessa “tecnica” sia stata utilizzata nel 2018 da Maduro. Da questo primo censimento venne fuori che i Venezuelani erano 28 milioni; i dati del ministero raccontano di 4 milioni di case popolari costruite in 10 anni (considerando, al ribasso, 4 persone per nucleo familiare, il 60 % della popolazione disponeva di alloggio statale).

Fu istituito inoltre, sempre con Chavez presidente, una sorta di reddito di cittadinanza (il reddito al cambio del 2006 era di circa 900 € al mese quando uno stipendio medio era sui 1200 € mensili) e degli incentivi per viaggiare 2 volte l’anno fuori dal paese; l’idea era quella di importare best practices o anche semplicemente favorire lo scambio culturale.

L’effetto fu che molti piccoli artigiani preferirono lasciare il proprio lavoro perché, a conti fatti, era più conveniente ricevere il reddito statale. Nel tempo, secondo le stesse fonti ministeriali, molte piccole produzioni interne al paese scomparvero lasciando campo aperto ai colossi del mercato e alle importazioni dall’estero. L’economia era interamente basata su petrolio (il Venezuela è il paese con i più ampi giacimenti petroliferi al mondo) e minerali, oro e diamanti in particolare.

Quando il prezzo del petrolio è crollato è miseramente venuto giù tutto il castello di carta. Era il paese dei sogni che al suo risveglio si era trasformato in un inferno.

Con l’abbassamento del prezzo del barile l’economia venezuelana è collassata causando l’enorme svalutazione del bolívar (la moneta nazionale) determinando un brusco stop alle importazioni e con la produzione in mano a pochi (grandi imprenditori ovviamente oppositori del socialismo) la situazione si è avvitata senza via d’uscita.

Il governo ha dapprima tentato di nazionalizzare le aziende alimentari per aumentare la produzione interna, aggiungo io, fallendo miseramente e replicando il sistema delle imprese nazionalizzate che si occupano dell’estrazione del petrolio. Perché è bene ricordare che pur avendo i giacimenti di petrolio più grandi del mondo il Venezuela ne estrae una quantità bassissima giornalmente per via di una scarsa capacità di ottimizzazione del lavoro.

A proposito della nazionalizzazione dei giacimenti petroliferi, ricordo che un giorno ci fermammo a fare benzina e Victor, la mia guardia del corpo, chiese il pieno. Parliamo di un enorme suv blindato a benzina. Da noi sarebbe costato non meno di 120 €, lì invece la cifra era ridicola anche per la loro economia già in pezzi nel 2016. I benzinai sono impiegati statali e ricordo che il benzinaio, impegnato al telefono, forse per non lasciare la chiamata a metà guardò Victor e gli fece cenno di andar via senza pagare.

Per sopperire alla crisi il governo ha iniziato a farsi finanziare da altri paesi, principalmente la Cina e la Turchia, cedendo i permessi di estrazione dei minerali preziosi e la gestione di porti e aeroporti. A Canaima, un posto incantevole al confine con Brasile e Guyana, esiste una ricchissima miniera d’oro gestita interamente dai cinesi e dove anche i minatori vengono dalla Cina. Non mi sentirei di mettere la mano sul fuoco riguardo ai minatori poiché non dispongo di fonti ufficiali, ma riporto quanto mi è stato raccontato da un abitante di un piccolissimo villaggio vicino al Salto Ángel, la cascata più alta del mondo. Sembrava un tipo affidabile.

Al ministero erano convinti che questa manovra di accerchiamento economico fosse opera degli americani da sempre interessati ai giacimenti venezuelani, abbondanti e molto più vicini rispetto a quelli del medio-oriente, che comporterebbero un sostanzioso risparmio in termine di trasporti e di controllo.

Personalmente non ho elementi per dire se questa teoria corrisponda a verità, ma non la trovo affatto folle né troppo diversa dalle strategie già attuate in tanti paesi del medio-oriente.

LaboratorioCom, la politica e i venezuelani

Il nostro lavoro è durato 3 mesi. Abbiamo impostato e calibrato la strategia, selezionato e assunto personale e formato quello stesso personale. Mediamente il mio pranzo, nell’hotel in cui risiedevo, costava 18 dollari. I contratti che facevamo ai nuovi assunti erano di 14 dollari al mese.

Dopo una riunione abbiamo pranzato tutti insieme in hotel; eravamo 16 e il conto ammontò a 350 dollari. Quando ho pagato mi sono sentito malissimo.

Parlando della situazione politica ed economica, una cosa mi ha sempre colpito profondamente: la coscienza della situazione.

Tutti erano consapevoli che la caduta del socialismo significasse la perdita dell’identità: i venezuelani erano divisi tra chi, pur di rimanere indipendente, autonomo nelle scelte e senza ingerenze straniere era disposto a soffrire la fame e quelli che lo ritenevano un processo inevitabile e che semplicemente volevano vivere meglio fregandosene delle implicazioni ideologiche.

E nell’estate del 2016, dai sondaggi che avevamo, la popolazione era spaccata a metà.

Dopo i 3 mesi concordati, ad agosto del 2016, il nostro contratto era in scadenza e personalmente non posso negare che ne fui sollevato. Esisteva la possibilità di continuare la collaborazione ma preferimmo non imboccare neanche la strada della trattativa, perché non sapevamo davvero se ci trovassimo dalla parte giusta (se mai ne esistesse una) e perché la percezione di insicurezza era aumentata dopo l’omicidio di un cittadino tedesco all’uscita di un hotel in cui avevamo alloggiato e dopo la morte di un funzionario dell’ambasciata italiana a Caracas per cause che all’epoca non furono chiarissime.

Lì abbiamo incontrato e conosciuto persone stupende e professionisti serissimi e in gamba. Abbiamo sperimentato una cultura molto più aperta di quella del nostro paese con politiche di tolleranza e inclusione che non mi sarei mai aspettato prima di partire. A Caracas, chiamata “la bella” perché in effetti è una città strepitosa, nonostante la crisi economica c’è una fervente attività culturale e una spinta all’inclusione sociale disarmante. La città, e il paese tutto, sono vivi e conducono un’esistenza piena e intensa.

A Caracas sarebbe impensabile parlare di differenze legate agli orientamenti sessuali o al colore della pelle.  Immagino che le politiche sociali e di inclusione portate avanti dal governo Chavez abbiano frutti splendidi che nessuno si aspetterebbe da un paese che nell’immaginario comune dovrebbe essere “indietro” rispetto a noi. Insomma, culturalmente parlando, Caracas mi ha dato uno schiaffo (del tutto meritato).

Durante la permanenza in Venezuela ho visitato due località “turistiche” che per me al momento non hanno eguali: parlo dell’arcipelago di Los Roques e dei Tepuyes presenti nella Gran Sabana (ricordate il film d’animazione “Up!”?).

Il Venezuela è un territorio stupendo e variegato, colmo di cultura e tradizioni e i venezuelani un popolo fiero e preparato. A loro, e in particolare ai miei amici lì, auguro di tornare alla normalità, perché spesso ho avuto l’impressione che la normalità fosse per loro un concetto astratto e superato. E che comunque fosse un concetto relativo e lontano dal nostro.

Concludo dicendo che amo la mia città, Bari, ma non penso sia la migliore del mondo. Ecco. Quando son tornato ero felice di poter passeggiare tranquillamente per strada, ero felice di vedere le vetrine dei negozi e di poter decidere oppure no di comprare un pezzo di focaccia.

Un amico una volta mi ha detto “siamo nati nel club privé del mondo e la nostra generazione, non ha grossi meriti a riguardo”. Siamo nati qui e abbiamo avuto solo molta fortuna, che sarebbe bene condividere.

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